Tre lezioni dal Dubai.
L’esplosione della speculazione immobiliare in Dubai insegna almeno tre cose. E mette ora le imprese italiane creditrici di fronte a una scelta. O compongono presto un trust unitario. Oppure le banche estere che sono più esposte tratteranno al meglio le garanzie per sé e i propri clienti. E rischiamo di prenderci un’altra sveglia. Non sul mattone dubaino, questa volta. Ma sui porti di mezzo mondo. Andiamo per ordine.
La prima lezione è che quando come nel caso del Dubai non si hanno attività reali – né materie prime né attività di trasformazione – puntare tutto sull’obiettivo di offrire al mondo globalizzato un hub di servizi tax free – in Dubai non c’è obbligo di partner locali per società di qualunque tipo, l’aliquota personale è zero, la tassazione societaria per 25 anni è garantita free of charge – comunque non garantisce che il prezzo degli asset immobiliari continui ad avvalorarsi, sostenendo in quanto tale l’esposizione crescente per realizzarli. Francamente, capisco che i governo del Dubai abbia ribadito che non risponde del debito di Dubai World, come del resto era esplicitamente scritto nel prospetto di ogni sua emissione obbligazionaria: è infatti una lezione per le banche internazionali e soprattutto britanniche, esposte per l’equivalente del 100% del pil di Dubai, non per per l’emiro Rashid al Maktoum che aveva preso le sue esplicite precauzioni.
La seconda lezione è per le imprese che lavoravano in Dubai, perché si troveranno esposte a bei buchi nel conto economico atteso. E la lista è lunga, anche di italiane o comunque di sussidiarie italiane di gruppi multinazionali: per restare solo alle maggiori ABB, Ansaldo Energia, Astaldi, Belleli, Fisia Italimpianti, Snamprogetti, Saipem, Danieli-Officine Meccaniche, IANUA, Nuovo Pignone, Italconsult, Pizzarotti, Tecnosistemi, Italian Design, Technip Italy, Pacorini SpA, Salini… un bel mix di engineering, edilizia, design, arredo casa, ceramica e mattonelle.
La terza lezione è ancor poco chiara ai più, ma interessa un settore centrale e decisivo negli affari mondiali: il traffico commerciale navale, cioè l’arteria principe della globalizzazione. Vedremo se i responsabili Deloitte della ristrutturazione del debito, nominati da Dubai Wolrd in riservata trattativa con le maggiori banche internazionali creditrici, a fronte degli impegni assai poco calorosi offerti dal governo del Dubai – che non risponde dei 60 bn $ in bonds di Dubai World da restituire al 2011– e a maggio ragione tanto più di quello di Abu Dhabi, non si rifaranno su uno degli asset che più fa gola di Dubai World, cioè Dubai World Port. Ricordo a tutti che è il quarto gigante al mondo per gestione diretta di terminali logistici marittimi: in 49 porti disseminati tra USA, UK, Germania, Emirati, Africa, Cina, Vietnam, Australia e via continuando, con altri 13 mega progetti in via di realizzazione. Bush aveva posto il veto alle attività del gigante britannico P&O nei maggiori porti USA, quando nel 2006 esso fu rilevato dai dubaini. Ma i 48 milioni e rotti di TEU movimentati da Dubai World Port nel 2008, che al terzo trimestre di quest’anno registravano solo un -6% sul terzo trimestre 2007 e cioè erano a mala pena scalfiti dal -15% di calo del commercio mondiale a cui chiuderà se va bene il 2009, insieme a molti porti in mezzo mondo farebbero gola a gran parte delle banche creditrici. Inutile dire che per le banche americane e nordeuropee l’interesse prioritario è esattamente opposto a quello italiano, nel commercio navale. Noi dobbiamo difendere i flussi che dall’Asia passano per il Golfo, Suez e il Mediterraneo. Loro, hanno l’interesse a minimizzarli.
Attenzione dunque: il buco che molte aziende italiane stanno rischiano non riguarda loro da sole, riguarda noi tutti. I creditori italiani dovrebbero essere energicamente invitati dal governo a costituire un trust unitario nel più breve volgere di tempo possibile, trust al quale dare una rappresentanza bancaria e legale altrettanto unitaria da costituire al più presto presso i ristrutturatori ufficiali del debito dubaino. Altrimenti, i più esposti avranno i porti che attualmente fanno molta più gola di nuova carta finanziaria degli Emirati. Noi, niente.
Fonte: Investireoggi.it ( Oscar Giannino )
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